Funny Games – Indagine sul rapporto tra film e spettatore, ESCLUSIVA: parla Antonio Ansalone

Funny Games Indagine sul rapporto tra film e spettatore. Abbiamo intervistato in esclusiva l’autore Antonio Ansalone. Montatore professionista ha deciso di uscire per la prima volta con un suo testo grazie alla casa editrice Libereria.

Funny Games – Indagine sul rapporto tra film e spettatore, ESCLUSIVA: parla Antonio Ansalone

Antonio, come ti è venuta l’idea di scrivere un libro su un film considerato d’essai in Italia e, soprattutto, di parlare di un film così “drammatico”?

Buongiorno Teresa, penso che più che un film drammatico è una riflessione sulla violenza nel cinema e, in particolare, sul modo in cui noi spettatori consumiamo questa violenza nel cinema contemporaneo. Solitamente nei film contemporanei o nelle serie tv, per parlare di un argomento che conoscono anche i ragazzi più giovani, la violenza viene in qualche modo “giustificata” o da condizioni sociali estreme o dalla presenza di una minaccia esterna (ossia la violenza come risposta all’invasione dello spazio domestico). Mi ricordo nella marea di documenti e interviste che ho letto per scrivere questo libro una frase che disse Haneke: “Alla gente non piace confrontarsi con la realtà. A loro piace confrontarsi con una rappresentazione della stessa. Anche la violenza più brutale deve essere mostrata in modo che noi non veniamo coinvolti direttamente”. In Funny Games la cosa più interessante è che la violenza avviene senza nessuna motivazione.

Questo libro tenta di indagare sul motivo per cui questo film è particolarmente disturbante, sul ruolo dello spettatore all’interno della pellicola, sul rapporto del film con il cinema di genere e soprattutto, la cosa più interessante, su come Haneke, attraverso i suoi personaggi, la posizione della macchina da presa, la messa in scena, giochi letteralmente con lo spettatore facendolo diventare nel corso della pellicola spettatore, vittima e carnefice.

Questo libro ha comportato un grosso lavoro di ricerca in quanto, sia sull’autore che sul film stesso, ci sono pochi testi disponibili in lingua italiana. Per questo motivo mi sono dovuto armare di pazienza e costruire un discorso a partire da interviste e testi in inglese francese e tedesco.

L’ispirazione per il tuo libro l’hai avuta dopo la visione del film del 2007. Nel tuo libro a quale versione ti inspiri? E quali sono per te le differenze tra le due?

Nel mio libro parlo sostanzialmente della versione del 1997 e dedico un ultimo capitolo alla versione americana.
A livello formale non ci sono differenze tra i due film. Haneke è un grandissimo professionista ed ha posto in essere una operazione abbastanza folle cioè ha rigirato, scena per scena, un secondo film identico nelle inquadrature e nella messa in scena all’originale. Quello che cambia è il contesto sociale, temporale e soprattutto spettatoriale nella seconda versione e questi cambiamenti, sostanzialmente, caricano di un senso differente l’opera americana. La società americana, a differenza di quella austriaca, è più “classless” quindi il fatto di possedere una grande casa sul lago non denota necessariamente l’appartenenza borghese dei protagonisti.
Anche la presenza di attori mainstream contribuisce a mantenere un certo distacco rispetto alla diegesi, a differenza dell’originale.

Secondo te c’era bisogno di un remake?

Secondo me, questo è un parere strettamente personale, quello che Michael Haneke ha cercato di fare con questo remake, riuscendoci solo in parte, è una critica allo spettatore medio americano e al sistema cinematografico.
Vorrei citare una frase che Haneke disse in un intervista con Fabrizio Fogliato: “Nell’osservare l’immagine statica
della Guernica di Picasso vediamo il dolore delle vittime pietrificato per l’eternità dello sguardo grazie al tempo che abbiamo a disposizione per essere consapevoli e
riflettere sul soggetto rappresentato. In Apocalypse Now, al contrario, nella sequenza del massacro accompagnata dalla Cavalcata delle Walkirie di Wagner, sediamo nell’elicottero e spariamo ai vietnamiti e questo lo facciamo senza
coscienza sporca perché nel momento dell’azione non siamo affatto consapevoli di questo ruolo”.

Nel libro indaghi sul perché il film sia così disturbante. Lo stesso Tim Roth, che nella versione 2007 interpreta George, non voleva inizialmente accettare il ruolo e ha affermato di aver sofferto molto durante la lavorazione del film…

Tim Roth è un attore straordinario ed è stato un ottimo George.
In molte interviste gli attori che hanno interpretato questa pellicola, sia nella versione americana che in quella austriaca, dicono di avere “sofferto” durante la lavorazione. Credo che sia anche dovuto ai lunghi piani sequenza che il regista ha costruito nelle scene più drammatiche del film, spingendo cosi gli attori a “immedesimarsi” nella storia e nella situazione di disagio e di sofferenza dei loro personaggi.

Vi ringrazio per avermi concesso questo spazio e invito chiunque fosse interessato a una copia del libro a prenotarsi. Per me sarebbe veramente un piacere arrivare a più gente possibile.

Teresa Franco

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