Detroit, Michigan, 1970: “Cold fact”, l’album d’esordio di Sixto Díaz Rodríguez, sembra annunciare l’apparizione di una nuova, grande rockstar. Ed è andata proprio così, ma in Sudafrica, quasi mezzo secolo dopo.
Figlio di immigrati messicani, Sixto Rodríguez viene scoperto in uno sperduto locale di Detroit, con i classici arnesi del folksinger: chitarra, armonica e canzoni di protesta. In mancanza di Dylan, è un attimo firmare un contratto, ma i sogni di gloria svaniscono in fretta e nel giro di pochi anni Rodríguez scompare e si ricicla come muratore. “Cold fact” trova però la strada del Sudafrica e nelle ballate di Rodríguez si riconoscono i giovani ribelli sudafricani negli anni dell’apartheid, spingendolo a diventare “più grande dei Rolling Stones”. Una di quelle storie di cui abbiamo bisogno per vivere: “Sugar man” racconta l’imprevedibile successo dell’unico cantautore diventato una rockstar senza saperlo.
Insieme al film, anche il libro “L’uomo che visse due volte” (a cura di Marco Denti, pp. 80). L’incredibile odissea umana e artistica di Sixto Díaz Rodríguez è un’esperienza esemplare dei meccanismi che regolano l’ascesa e la caduta di una rockstar. A partire dal suo esordio, quando venne confuso nell’abbaglio del “nuovo Dylan”, scomoda etichetta che condivise con dozzine di songwriter americani. Tutti destinati a restare piccoli, misconosciuti eroi del rock’n’roll, con l’eccezione di Bruce Springsteen, l’unico riuscito ad affrancarsi da quel fantasma. Le loro storie s’intrecciano con quella di Sugar Man in un’epopea di successi e fallimenti, ambizioni e miraggi, sempre sull’orlo
dell’oblio, la condanna peggiore per una rockstar.