In Vhs: ‘Lo Zio di Brooklyn’ di Ciprì e Maresco

IN VHS LO ZIO DI BROOKLYN –

Nazione: Italia
Regia: Daniele Ciprì; Franco Maresco
Soggetto: Daniele Ciprì; Franco Maresco
Sceneggiatura: Daniele Ciprì; Franco Maresco
Cast:
Pippo Agusta; Francesco Arnao; Antonino Bruno; Rosario Carollo; Luigi Cina; Camillo Conti; Bruno Di Benedetto; Giuseppe Di Stefano; Salvatore Farina; Umberto Florulli; Ernesto Gattuso; Salvatore Gattuso; Pietro Giordano; Giovanni Gucciardi; Natale Lauria; Giovanni Lo Giudice; Gaspare MArchione; Marcello Miranda; Giuseppe Paviglianiti; Angelo Prollo; Pietro Rizzo; Mario Salmeri; Massimo Salmeri; Salvatore Schiera; Vincenzo Serio; Mariano Spataro; Francesco Tirone
Durata:
95’

Valutazione   * * * / * * * *

 

 

Trama
Due mafiosi nani affidano a quattro squattrinati fratelli il loro lontano zio proveniente da Brooklyn, un pretesto per riflettere sul cinema.

Recensione
Provenienti dall’esperienza di Cinico Tv, Franco Maresco e Daniele Ciprì, fratelli d’arte, segnano l’esordio alla regia cinematografica. La pellicola, come non difficilmente si vede, fece scalpore per la crudezza delle immagini e per il non sense espresso dalla diegesi. La trama e il volere raccontare qualcosa sembra solo un pretesto per fare un viaggio attraverso diverse riflessioni: religiose e cinefile. E il fatto che lo stesso narratore, presente sulla scena, non si ricordi mai quello che debba dire né è una lampante dichiarazione.
L’inizio dell’opera, dopo l’apertura zoofila dove un contadino paga un altro per avere rapporti sessuali con il suo asino, ha tutto per essere un documentario. La spersonalizzazione del personaggio che guardando fisso in macchina dice che il film che staremo per vedere è un documentario sulla Palermo di allora non è un particolare che deve scivolare inosservato.
La violenza visiva e lo scavo psicologico assumono livelli incredibilmente forti che lo spettatore è persuaso dalla trama e portato a pensare ad altro a priori.
Fino a che i registi si divertono nel gioco surrealista di deridere il cinema muto, oltre alla provocazione del bianco e nero, facendo passare i proprio protagonisti, tra cui un cavallo, avanti e indietro davanti alla telecamera dissimulando precisamente quello che è la macchina cinema per ricordare che questa magia è solo astratta e non ci illude di un altro dove, come farà Alejandro Jodorowsky nella sequenza finale de La montagna sacra chiedendo alla telecamera uno zoom out.
Poco dopo si presenta alla telecamera un personaggio non da meno, che sarà ripreso dal boss che chiederà se piace il film in Totò che visse due volte, in mutande davanti allo schermo provando a contare gli spettatori. Alcuni se ne vanno e vengono anche rimproverati, “dove vai cane rognoso”, e altri che rispondono alla provocazione, “va male, non lo capisci”
“perché il film fa schifo”. Questo fantomatico personaggio metacinematografico ritornerà dopo per dire che il cane che ha accanto recita meglio degli attori del film. Senza voler peccare di presunzione, sembrano gli stessi Ciprì e Maresco ammettere che il loro è si un cinema di scavo psicologico e di critica sociale ma non ha pretesa di essere un’opera d’arte ma solo quella di riflettere sul cinema e sulla vita.
A differenza del Totò successivo, che sembra aprire un filone diverso, ci troviamo di fronte a un cinema carico di sperimentalismo, come ad una prova per il grande salto. E così sembra effettivamente essere Lo zio di Brooklyn.
Inutile dire e insistere sulle influenze Fellini-Pasoliniane e inutile dire che il tema dell’uomo e dell’omosessualità della privazione dominano. Volti scavati, volti affogati nel cibo, passeggiate illuminate da una fotografia magistrale di Bigazzi per una super strada che ricordano Uccellacci Uccellini, la marcia finale, la continua presenza di Cristo rappresentano elementi che torneranno sempre nella ancora breve filmografia dei due.
Più tardi in una chiara soggettiva addirittura un personaggio inzierà a sputare sulla telecamera come a deridere il mondo che è al di là.
Alla fine il produttore ha voluto realizzare questo film con il coraggioso scopo di offrire molte cose tra cui uno spaccato sociale.
Buffo che alla fine il tanto beneamato zio che se ne sta zitto tutto il film, arrivi davanti allo schermo presentandosi e dicendo “Permette mi presento, io sono” per essere interrotto da una lunga pernacchia. Girerà le spalle verso la strada e la scena si chiuderà a cerchio come succedeva molti anni prima a Charlie Chaplin in Tempi Moderni.
Un cinema di rilievo e di coraggio in mezzo a tanto nomadismo culturale, però il peso del passato soprattutto pasoliniano preclude di urlare a squarcia gola alla novità assoluta. Un cinema che va studiato e analizzato perché spesso lo stesso cinema ci nasconde molte cose dietro immagini molto forti ma ci sorprende sempre e comunque.

 

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