Dieci anni dopo, un gruppo di cervelli in fuga parcheggia ancora nel nostro immaginario, con provette accese come luci al neon e Roma sullo sfondo
Lo ricordo bene. La prima volta che ho visto Smetto quando voglio, ho riso. Subito dopo, ho pensato alla mia generazione. Ricerca, contratti a termine, competenze sprecate. Il film entrava in sala come una commedia, ma usciva come una puntura di verità.
È il 2014. Regia di Sydney Sibilia. Roma diventa un laboratorio a cielo aperto. Pietro Zinni, interpretato da Edoardo Leo, è alla guida di una banda di ricercatori precari. Chimici, latinisti, economisti: persone brillanti, ma subito fuori dal sistema. Una legge piena di buchi offre l’idea brillante: creare una smart drug “legale” e venderla. Il film si snoda tra morale e necessità, scienza e strada, in una frizione narrativa che cattura l’attenzione.
Fino a metà film, Sibilia costruisce un’opera che asciuga i dialoghi e stacca sul cast corale, alternando lavagne piene di formule a inseguimenti da crime-comedy. Capisci allora l’ambizione del film: non è solo una commedia italiana, ma un ibrido che parla di lavoro e dignità, mantenendo il ritmo di un heist movie.
Il film non solo ha intrattenuto, ma ha anche cambiato le regole del gioco, mostrando che era possibile miscelare satira sociale, azione e ritmo pop senza perdere identità. La “banda dei ricercatori” diventa un archetipo contemporaneo, una classe creativa compressa che esplode in creatività. La regia di Sibilia eleva il film a cinema di genere, distinguendolo dal semplice intrattenimento televisivo.
L’uscita del 2014 ha aperto la strada a una trilogia, con “Masterclass” e “Ad honorem” che arrivano nel 2017, confermando il successo presso il pubblico. Le candidature ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento, sebbene con cifre variabili, testimoniano l’impatto del film. Gli incassi solidi nel mercato domestico segnalano un successo che va oltre il singolo film, influenzando produttori e autori verso l’ibridazione tra commedia e genere.
La normalizzazione del rischio è forse l’eredità più tangibile di “Smetto quando voglio”. Film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” e “Perfetti sconosciuti” seguono l’esempio, incrociando toni e generi con fiducia nel pubblico adulto e nella scrittura di qualità. “Smetto” ha dimostrato che la forma può essere tanto importante quanto il contenuto.
Non sono solo i numeri a parlare: i costumi street, i colori saturi, la Roma dei ponti e dei raccordi rimangono impressi nella memoria. L’idea che una riunione di laboratorio possa trasformarsi in un’operazione sul campo e la tenerezza che si nasconde dietro la spavalderia dei personaggi sono elementi che definiscono il film.
Per chi cerca approfondimenti, le schede ufficiali dei David di Donatello, i Nastri d’Argento, banche dati come Cinetel e archivi stampa di settore (ANICA) offrono un punto di partenza affidabile. È sempre consigliabile incrociare più fonti per una visione completa.
Dieci anni dopo, “Smetto quando voglio” continua a essere un promemoria potente. L’intelligenza, messa all’angolo, trova sempre strade impensate. La domanda che resta è provocatoria: in un paese che ancora disperde talenti, quante “bande di ricercatori” stanno già scrivendo, in silenzio, la prossima rivoluzione?
Questo articolo è stato modificato: 18 Dicembre 2025 14:12
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