Fabbrica di Sogni, deposito di incubi ESCLUSIVA Stefano Santoli: “Io sognatore…?”

Abbiamo intervistato in Esclusiva Stefano Santoli autore per Mimesis Editore del libro “Fabbrica di Sogni, deposito di incubi”. Ecco tutto quello che ci ha raccontato.

Il suo libro fa sognare, lei è un sognatore?

Nel mio profilo whatsapp ho messo una citazione di “Imagine” di John Lennon: “You may say I’m a dreamer”. Quindi sì, sono un sognatore. Forse questo contribuisce a spiegare il mio interesse per il cinema, tuttavia penso proprio che la mia indole sia di scarso interesse per i lettori! Veniamo al mio libro, “Fabbrica di sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA: 2010-2019”. Lei dice che il mio libro fa sognare. Non saprei, mi farebbe piacere che facesse riflettere sullo stato attuale del “sogno americano”, l’“american dream”. Ogni decennio di cinema statunitense, a partire dagli anni Quaranta, ha i suoi incubi, che fanno da controcanto ai sogni proposti dalla “fabbrica dei sogni”, Hollywood. Nei film degli anni Dieci del XXI secolo, si avverte il timore della fine dell’american dream e dell’impero americano. Anche in quelli più commerciali. Si pensi al tema della morte dell’eroe, che invade di prepotenza anche l’universo dei superhero movies. Un timore diverso rispetto a quello del decennio precedente, che era stato condizionato soprattutto dall’11 settembre. Ora l’incubo innerva la società stessa, le sue aporie, riflette le diseguaglianze e i disagi sociali. E però, questa paura rimane inscindibile dalla fiducia nei miti americani, dalla speranza, tutta americana, che gli USA e i loro valori siano destinati a non tramontare. Che siano in qualche maniera capaci di trionfare anche sulla fine, sulla sconfitta, sulla morte. L’ottimismo è una caratteristica connaturata alla capacità americana di creare miti (la mitopoiesi), che non cessa di essere ingenua ma anche molto potente nella cultura popolare. Questo aspetto della cultura americana affascina almeno in parte lo spettatore europeo, anche il più colto e criticamente avveduto.

Il cinema da lei raccontato da cosa è accomunato?

Nel mio libro, non è che uno spunto iniziale la capacità mitopoietica della cultura statunitense, e dunque la capacità di creare sogni nonostante l’infittirsi degli incubi. Ci sono, direi, due motivi di fondo che accomunano un decennio molto variegato che tento di affrontare in tutte le sue sfaccettature. Questi motivi di fondo sono, il primo, la tendenza del cinema a riflettere nuovamente e maggiormente sul presente (in controtendenza rispetto ai decenni precedenti), non solo cavalcando l’attualità: ci sono stati negli ultimissimi anni movimenti interessanti come l’esplosione del cinema black, in forme molto variegate. Il secondo è diametralmente opposto: la tendenza ad allontanarsi dal presente, rifugiarsi soprattutto nel Novecento, che si propone come nuovo orizzonte mitico. Il rifugiarsi nel passato è tipico della cultura americana (Franco La Polla considerava la nostalgia come la tradizione americana per eccellenza!), ma avviene sempre più in forma d’incubo piuttosto che di sogno. In linea di massima, si guarda al passato per riflettere sul presente. E oggi si identificano sempre più chiaramente nel Novecento le radici del tradimento dell’american dream. Abbastanza in controtendenza si muove un idealista come Spielberg che, un po’ seguendo le orme di John Ford, si pone come un cantore del Novecento e degli ideali americani.

Quali sono i momenti di massima espressione che troviamo all’interno del libro?

È forse abbastanza curioso, ma i momenti di massima espressione del cinema statunitense degli anni 2010-2019 non si trovano secondo me nei film più aderenti all’attualità, quanto piuttosto nell’opera degli autori con una carriera pluridecennale alle spalle, ognuno dei quali segue un percorso personale e autonomo, spesso guardando al passato. Come dico nel libro, sono cineasti che “se ne vanno per conto loro”. Alcuni dei punti più alti del decennio sono le opere della maturità di Scorsese (“Silence”, “The Irishman”), i film di Tarantino (“C’era una volta …a Hollywood” su tutti), la serie “Twin Peaks” di Lynch, la new wave di Malick inaugurata da “The Tree of Life”. Tra i più giovani, tutti i film di Paul Thomas Anderson (da “The Master” a “Il filo nascosto”), nessuno dei quali è ambientato nell’oggi. Tra i film ambientati nella contemporaneità, quello più interessante nel riflettere il mondo in cui viviamo è probabilmente “The Social Network” di Fincher. Ma direi che a essere particolarmente interessanti, come specchio del presente, sono soprattutto le opere di alcuni cineasti non americani che si confrontano con la provincia profonda degli Stati Uniti: Roberto Minervini, Chloè Zhao (i due film, “Song My Brothers Taught Me” e “The Rider”) e Andrea Arnold con “American Honey”, cui ho voluto dedicare la copertina del libro.

Nel periodo da lei analizzato cosa è migliorabile e cosa insuperabile?

Il decennio si conclude con un trauma: nel 2020 esplode la pandemia covid-19, chiudono i cinema, le produzioni si fermano, le distribuzioni slittano di mesi. Direi che oggi è urgente anzitutto preservare la filiera della produzione e distribuzione che si fonda sì sui soliti blockbuster, da 40 anni, ma garantisce una pluralità di voci e di espressioni, rispetto alla cui sopravvivenza rappresenterebbe una grossa incognita lo sconvolgimento delle modalità produttive che dovesse conseguire a un massiccio e definitivo travasamento della fruizione del cinema dalla sala allo streaming. Poi ciò che è migliorabile sono naturalmente le modalità della produzione, che hanno visto nel decennio una concentrazione nella Disney, che di fatto è quasi un monopolio, con un appiattimento e un’omologazione del linguaggio e dell’immaginario veramente preoccupanti. Pensi ai superhero movies del decennio precedente: c’era una tale diversità di approccio, da Raimi a Nolan, da “Sin City” ai primi Snyder a Del Toro! Cosa è insuperabile? Speriamo non restino insuperabili gli ultimi grandi maestri, quelli che nominavo poco fa. Tra i giovani ci sono diversi nomi promettenti emersi nel decennio: Chazelle, i fratelli Safdie, Zahler, Saulnier e altri autori che si cimentano nell’horror con ambizione (Eggers, Aster, Peele). Non sono molti. E soprattutto hanno grosse difficoltà a produrre, limitata capacità di sbagliare. Probabilmente gli autori promettenti sarebbero molti di più, se avessero possibilità di esprimersi con continuità. L’affinamento di uno stile e di un linguaggio personale fanno l’autore, ma si deve pur riconoscere un percorso. Se si riesce a girare a malapena un film ogni tre anni, il futuro è incerto.

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