Kubrick e Caravaggio sabotatori del reale, Francesco Fiotti: “La testimonianza di un viaggio”

Abbiamo intervistato Francesco Fiotti che per la Mimesis ha scritto “Kubrick e Caravaggio sabotatori del reale”. Andiamo a leggere le sue parole.

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?

Questo libro non nasce con una chiara progettualità iniziale, è piuttosto la testimonianza di un viaggio, un’esperienza di scoperta in continua espansione. La scintilla è rappresentata da una frase che Kubrick pronunciò durante le fasi di lavorazione di un suo film. Il set è quello di Shining, l’interlocutore Jack Nicholson: “in un film non si cerca di fotografare la realtà, si cerca di fotografare la fotografia della realtà”. Quelle parole mi sono entrate in testa fin dal primo momento, come un’ossessione, per anni, e con il tempo questa ossessione ha assunto una sua precisa identità: Caravaggio.

Perché proprio il paragone con Caravaggio?

Ho cercato innanzitutto di scoprire ciò che inizialmente era solo percepito. Al di là di evidenti distanze di linguaggio, tempo e contesto in Kubrick e Caravaggio vi è un’urgenza di coinvolgere lo spettatore, trascinandolo in un’esperienza inedita, perturbante, che lo spinga ad interrogarsi sulle contraddizioni e fragilità dell’animo umano. Ma vi è di più. Ciò che ci viene mostrato, in una sorta di sogno allucinatorio, quell’apparente nettezza delle immagini, custodisce in realtà delle smagliature, in alcuni casi addirittura dei veri e propri atti di sabotaggio che hanno lo scopo di raggiungere lo spettatore su diversi livelli di percezione. Scopriamo allora che la realtà non è più il fine, ma diviene un mezzo per arrivare infine al cuore dell’esistenza umana.

Si potrebbe dire che Kubrick si sia ispirato al modo di rappresentare la realtà del celebre pittore?

Kubrick ha sempre analizzato con scrupolo e meticolosità qualsiasi materiale che potesse mostrarsi utile per i suoi lavori. Man mano che la sua carriera avanzava la fase di preparazione dei suoi film occupava sempre più spazio. I tempi di lavorazione si dilatavano, la raccolta dei suoi archivi si arricchiva in maniera esponenziale. Nulla poteva essere trascurato. I suoi legami con la pittura sono evidenti soprattutto nella produzione di Barry Lyndon. Tuttavia anche in questo caso, nonostante il riferimento alla pittura del Settecento sia stato confermato dallo stesso regista nella costruzione delle ambientazioni, della luce e in definiva dell’atmosfera dell’epoca, alla fine non si trattava mai una semplice trasposizione di un’opera. In effetti non vi sono riferimenti all’opera di Caravaggio nei suoi lavori.

Pensa che ci sia un nesso tra l’arte della pittura e quella della regia nel modo di rappresentare le cose?

È evidente come questi linguaggi mantengano le proprie specificità tecniche, ma per entrambi ci troviamo in un certo senso di fronte ad un’operazione di ‘cattura’ della realtà che è di fronte ai nostri occhi, o che semplicemente viene messa in scena. Trattando di immagini risulta naturale una connessione sulla comune esigenza di composizione spaziale, nel rapporto degli elementi in gioco, ma cinema e pittura hanno da sempre mostrato una decisiva vocazione narrativa. Diviene allora affascinante approfondire l’utilizzo del tempo, che si piega in funzione delle esigenze del racconto.

In che modo i due principali artisti trattati nel libro, Kubrick e Caravaggio, sono stati pionieri a loro tempo?

Tutti i grandi artisti hanno lasciato un solco profondo, una frattura con ciò che li ha preceduti, indicando nuove possibilità, e molto spesso ne hanno pagato il prezzo. Entrambi hanno definito un nuovo tipo di linguaggio, di tecniche che hanno segnato profondamente la produzione, il gusto di chi è venuto dopo di loro. Caravaggio è stato probabilmente il primo ad aver avuto una ‘scuola’ senza averla mai fondata. Non amava essere imitato eppure suoi contemporanei accorrevano da ogni parte d’Europa per vedere le sue tele, copiarne le invenzioni. Allo stesso modo Kubrick ha introdotto un certo tipo di sguardo, che ancora oggi influenza i giovani registi, e questo grazie anche ad una serie di innovazioni tecniche che è stato in grado in perfezionare all’interno dei suoi lavori.

È un libro pensato per gli addetti ai lavori o anche per un pubblico più vasto?

Questo lavoro punta a raggiungere un pubblico ampio. Un’opera che affronti Kubrick e Caravaggio da questa angolatura non può porsi all’interno di uno steccato specialistico. Caravaggio ha combattuto l’estremo distacco del Manierismo e allo stesso modo Kubrick non ha mai nascosto la necessità di coinvolgere il vasto pubblico. Questa esigenza si riflette anche tipo di scrittura. Il libro si divide in due parti. La prima è costituita dal saggio vero e proprio e punta a tratteggiare i temi in maniera scorrevole, quasi come un romanzo. La seconda parte è rappresentata invece dai ‘varchi’, frammenti che conducono il lettore verso episodi legati alla vita e alle opere dei due artisti. La struttura non indica quindi un approccio al libro predefinito. Solo al lettore è affidata la scelta.

Visti i studi in architettura cosa l’ha spinto ad analizzare il cinema e, in particolare, un regista?

Direi che è una sorta di deformazione professionale. Come architetto e musicista ho sempre lavorato cercando di spostarmi in ambiti differenti del pensiero. Ritengo fondamentale osservare la realtà da diversi punti di vista. Se pensiamo alla nostra posizione nello spazio, il movimento del corpo è in grado di moltiplicare le nostre esperienze, ci aiuta a scoprire nuovi rapporti tra noi e le cose. Così allo stesso modo anche quando ci muoviamo all’interno di distinti ambiti del pensiero possiamo cogliere relazioni che altrimenti rimarrebbero nascoste.

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