La forma dell’attore, Marzia Gandolfi: “Un’arte formativa”

Marzia Gandolfi, nota critica cinematografica, ci ha raccontato la sua ultima fatica “La forma dell’attore”. Il libro è stato edito da Santelli editore.

La forma dell'attore, Marzia Gandolfi
La forma dell’attore, Marzia Gandolfi

Il suo libro propone un interessante percorso di analisi che ha come punto di partenza un legame profondo tra l’arte attoriale e le arti figurative: qual è l’aspetto che queste due espressioni artistiche hanno in comune?

Le arti figurative hanno fornito un termine di paragone pregnante nelle prime formulazioni della teoria del mestiere dell’attore. Il confronto dell’attore con l’attività dello scultore ad esempio, costituisce un momento importante nel passaggio verso la piena conquista di una concezione dell’attore come soggetto autonomo, affrancato da una funzione puramente mimetica e riproduttiva nei confronti del testo e del personaggio. Scultore del sentimento, l’attore incarna un ruolo più che ripeterlo, la sua è un’interpretazione vivente. La rivendicazione della dignità teorica e sociale del mestiere dell’attore si sviluppa molto prima della nascita del cinema e in corrispondenza con la nascita dell’estetica come disciplina autonoma. A partire dal Settecento, l’interesse per l’orizzonte della pratica performativa dell’attore si allontana dall’esercizio oratorio per concentrarsi sulla dimensione gestuale, mimica e scenica del lavoro dell’attore. Questa distinzione e differenziazione dall’esercizio dell’arte oratoria sollecitò una descrizione fenomenologica del processo e dei momenti del lavoro dell’attore, sviluppando l’esigenza di fornire una nuova legittimazione teorica generale del mestiere modellata sugli exempla offerti dalle arti figurative plastiche. Alle origini di questa professione, il corpo al lavoro veniva considerato quasi un ostacolo alla ‘declamazione dell’anima’. L’arte attoriale veniva assimilata all’arte dell’oratore, ostacolando in questo modo lo sviluppo di una teoria autonoma e specifica della prassi attoriale. Il corpo dell’attore doveva insomma essere governato e disciplinato dall’anima. Poi finalmente la rivoluzione, le arti figurative diventano il modello da seguire per cercare un corpo ideale, per ‘mettere in forma’ un corpo nuovo in una maniera che sembra avvicinarsi all’attività del pittore e a quella dello scultore. Dal primo, l’attore assimila l’arte delle sfumature, per scivolare da un’emozione all’altra secondo una gradualità progressiva (paragonabile alla scala dell’inquadrature, dal primo piano al fondo del quadro), dal secondo la capacità di modellare su se stesso le passioni del personaggio, seguendo un processo di auto-poiesi creativa incessante e sempre rinnovata.

Dalla scelta di alcuni attori icone, ha poi esaminato le loro filmografie per trovare corrispondenze e dei motivi formali per reinterpretare e leggere in modo diverso le loro performance. Qual è il criterio che ha guidato la sua selezione?

Il criterio è quello di pensare l’arte dell’attore come ‘formatività’. L’attore deve immaginare il personaggio, offrire un’immagine sensibile, una fisionomia all’eroe (o all’antieroe) realizzato in prima battuta dallo sceneggiatore o dal drammaturgo. La costruzione del personaggio passa sempre per la voce, un passo, una fisionomia gestuale e mimica. Ma per il mio libro ho scelto attori che privilegiano la forma generale del corpo piuttosto che l’espressività dei gesti. È evidente che tutti gli attori sono materia in potenza che attende di diventare forma attuale, ma alcuni lo sono più di altri e sono quelli che ricordiamo più facilmente perché possiamo letteralmente ‘figurarli’. Ne ho scelti quattro ma l’elenco potrebbe essere infinito. Per fare un esempio pratico, considerato nel testo, Leonardo DiCaprio pratica la frammentazione dell’espressione, Brad Pitt diversamente oppone un approccio più integrale dei suoi personaggi.

La forma dell’attore, Marzia Gandolfi

Rispetto alla scena internazionale, la tradizione dell’attore italiano riesce ancora a distinguersi nel panorama contemporaneo?

Domanda spinosa. Io credo che in Italia non manchino attori in grado di competere sul palcoscenico internazionale, in grado di dialogare con attori internazionali, penso a Claudio Santamaria con Daniel Craig in Casino Royale (adoro quell’inseguimento all’aeroporto, l’energia cinetica che producono insieme) o a Pierfrancesco Favino con Tom Hanks o Brad Pitt, rispettivamente in Angeli e demoni e in World War Z, o ancora a Riccardo Scamarcio e Alessandro Borghi in produzioni francesi come Dalida di Lisa Azuelos, a Valeria Bruni Tedeschi o a Laura Morante da sempre abilmente sospese tra due paesi e due filmografie. Quello che manca sono forse sceneggiature in grado valorizzare i loro registri. Una delle tendenze del cinema italiano è quella di consumare gli attori, impiegandoli fino all’usura e la noia in un ruolo che ha funzionato una volta e che da quel momento si ripete ad nauseam, penso a Marco Giallini, per citarne uno. Attore popolare, e lo dico nel senso alto del termine, come Jean Reno in Francia, che diversamente da lui ha una carriera internazionale. C’è un vizio di forma nel cinema italiano che sembra ‘annullare’ i nostri talenti. Le accademie italiane dovrebbero formare i nuovi attori nell’ottica di un respiro più grande, che superi se non i confini nazionali almeno quelli romani…

Il suo discorso sembra condurre a voler considerare l’attore l’elemento primario dell’arte cinematografica. Questa operazione non rischia anche di alimentare il Divismo, un fenomeno già abbastanza pervasivo nella nostra società?

Magari lo attivasse e tornassimo a parlare dei divi, quelli veri. Vorrebbe dire che ne esisterebbero ancora. Ma di fatto, almeno al cinema, di divi non ce ne sono davvero più. Insomma viviamo in un’epoca in cui più nessuno è celebre perché tutti possono diventare celebri con un hashtag o un video virale. Brad Pitt, Tom Cruise, per citare due degli attori presi in considerazione nel libro, sono gli ultimi due veri divi di Hollywood. Il loro statuto di star si esprime tanto in scena quanto fuori scena, nella vita reale. Hanno qualcosa di mistico che non si compra ma si ‘suda’, qualcosa che sfugge ai social network. Il potere di attrazione che hanno fa difetto agli altri attori, magari anche più dotati, non per forza peggiori. Secondo me siamo al contrario di fronte al declino dello star power. Difficile trovare oggi un attore in grado di esprimere un discorso cinematografico come hanno fatto loro. L’epoca non è più favorevole a quello che incarnano eppure, contro ogni logica, e ogni starletta del giorno, resistono. Sono attori proprietari del loro proprio brand, costruito e mantenuto negli anni. Uno è diventato il suo proprio marchio con Mission Impossible, l’altro si è allontano dalle regole del gioco del blockbuster, producendo e interpretando il cinema d’autore con la Plan B Entertainment.

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