It Comes at Night, la paura che viene dal di fuori nel film di Shults

Uscito tre anni fa It Comes at Night, opera seconda di Trey Edward Shults, è un interessante horror psicologico tra virus misteriosi e claustrofobia

It Comes at Night

Una non ben identificata epidemia ha decimato la popolazione. L’ex professore Paul (Joel Edgerton) insieme a sua moglie Sarah (Carmen Ejogo) e al loro figlio Travis (Kelvin Harrison Jr.) vive in una casa isolata in mezzo ai boschi, cercando di sopravvivere nel migliore dei modi rispettando delle ferree regole. Una notte, una famiglia di sopravvissuti si presenta alla loro porta. Dopo l’iniziale diffidenza, i due nuclei decidono di vivere insieme. Ma inquietanti presenze all’esterno e un crescendo di paranoia mettono a dura prova la convivenza.

Creare tensione e inquietudine con poco o – nel migliore dei casi – con nulla. Da qualche anno a questa parte il leitmotiv, la mission di molto cinema horror d’autore e non ormai è ben consolidata: spaventare, destabilizzare emotivamente e instillare, così, il più puro terrore possibile negli anfratti più reconditi della mente. It Comes at Night (2017) segue questo percorso, facendo sue le regole di questo neo “manifesto” di uno dei generi più proficui. Scritto e diretto da Trey Edward Shults, regista dei drammi Krisha e Waves, It Comes at Night fonde, al suo interno, due anime: quella da disaster movie, dal quale prende il tema del virus mietitore del genere umano, e quella orrorifica che guarda al passato soffermandosi, con precisione, sulla filmografia di un grande Maestro/artigiano come John Carpenter, senza disprezzare piccoli richiami a quel body horror cronenberghiano permeato da mostruosità e mutazioni corporee.

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Eppure, il secondo lungometraggio di Shults, nonostante i richiami a una cinematografia alquanto conosciuta e amata, riesce a vivere di vita propria. Horror psicologico di prim’ordine, It Comes at Night rinuncia alla abusata – e ridotta all’osso – economia del jump scare, in modo tale da creare momenti di vero e (quasi) palpabile spavento. Come i successivi A Quiet Place – Un posto tranquillo e Birdbox, l’opera di Shults mostra come la paura che viene dal di fuori si trasmuta, lentamente e inesorabilmente, in una negativa forza fomentatrice di paranoia, diffidenza e (forse) allucinazioni.

It Comes at Night: soprav(vivere) in mezzo agli incubi e deliri

It Comes at Night

Tranne per qualche indizio, il virus posto al centro delle vicende di It Comes at Night diventa il vero e proprio MacGuffin (di hitchcockiana memoria) della situazione: ad aiutare la funzionalità di tale espediente, ci pensa uno spiazzante e drammatico inizio in medias res che, in maniera diretta e senza filtri alcuni, mette in immagini-movimento tutta la crudezza e la disperazione del film di Shults. Le regole, le scelte e l’arrivo di un nucleo famigliare speculare a quello di Paul, non fa altro che alimentare una debole fiammella di speranza che, con l’incedere dei minuti, invece, divampa in un annichilente fuoco distruttivo.

Lo spazio d’azione, in questo caso rappresentato dalla casa nel nulla, rappresenta la linea di demarcazione, il limite, il confine protettivo tra conosciuto e sconosciuto assurgendo, così, a essere una specie di Alamo nei boschi in cui soprav(vivere) in mezzo agli incubi e deliri di un cortocircuito tra reale e onirico. La dimora di It Comes at Night diventa, ben presto, il nonluogo in cui proteggersi e asserragliarsi, un fortino in cui gli assediati cercano di contrastare, in maniera johncarpenteriana, un non ben precisato assediante esterno di cui, effettivamente, non si conosce il volto. Tuttavia, il vero mostro in It Comes at Night si plasma, prende le sue sembianze sotto forma di paura dell’altro da sé, di colui che viene dall’esterno che, per paranoia, diffidenza e isolamento forzato, rappresenta il nemico da abbattere e che, in condizioni eccezionali, fa riemergere l’extrema ratio della violenza, brutale retaggio ancestrale sepolto in ogni individuo.

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Opera dal titolo fuorviante ma non per questo privo di una certa valenza e contenutistica e linguistica, il secondo lavoro registico di Shults è una splendida metafora esistenziale sulla paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce, di quei nemici invisibili che, la mente umana, è capace di creare. Bilanciando la giusta dose di suspense con dei ritmi lenti e riflessivi intervallati da scene inquietanti, è un titolo horror che funziona per davvero, capace di tenere incollato allo schermo gli occhi dello spettatore fino all’ultimo frame di questa annichilente e spietata storia di sopravvivenza.

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