Chef Rubio, Alla ricerca del gusto perduto: “Su quel tweet” (ESCLUSIVA)

Chef Rubio è stato ascoltato in ESCLUSIVA ai nostri microfoni. Con il noto personaggio televisivo si è parlato di “Alla ricerca del gusto perduto” e quel tweet molto discusso.

Una scena di Rubio Alla Ricerca del gusto perduto

Attualmente abbiamo visto alcune tappe del tuo viaggio in Cina, Vietnam e Thailandia. Tra questi Paesi quale ti è rimasto di più nel cuore? C’è anche una pietanza che ti ha particolarmente colpito?

Sicuramente il Vietnam è la tappa che, non solo a me ma anche ai miei ragazzi, ha lasciato sia a livello lavorativo che narrativo le sensazioni più belle. Tra i piatti andati in onda mi ha colpito sicuramente il “Xoi Ngo”, un piatto a base di riso e mais, molto buono nella sua semplicità e che ha al tempo stesso un valore simbolico molto forte, perché è l’unico che molte famiglie possono permettersi di mangiare. Questo piatto ti fa capire quanto con poco si possa andare avanti. 

In questo viaggio hai lavorato fianco a fianco con le popolazioni locali, come ad esempio quando hai aiutato delle persone a piantare il riso. Che cosa ti è rimasto di questa esperienza dal punto di vista umano? 

Queste esperienze ci fanno emozionare ma non sono molto diverse da quelle che facevano i nostri nonni. Questo dovrebbe spingerci a riavvicinarci al territorio, alla materia e apprezzarne la sua semplicità. Questo è quello che ho voluto raccontare affinché potesse smuovere qualcosa anche da noi. Non c’è bisogno di spingersi fino in Asia per fare questo tipo di esperienze: anche l’Italia è una terra ricca di campi di riso. 

Una scena di Rubio alla ricerca del gusto perduto in Vietnam

Questo programma ti ha cambiato?

Si. A Livello professionale, avendo gestito tutte le fasi, dalla scrittura al montaggio, è stato utile perché con i miei fratelli sono cresciuto professionalmente, me li porto dietro da quando facevamo “Unti e bisunti” e siamo diventati degli ometti, lì eravamo dei ragazzini. Alla fine di queste puntate ci saranno delle puntate speciali con tutto il materiale che non siamo riusciti a inserire nel minutaggio, che verrà raccontato in una maniera differente ma che abbraccerà sempre le tre nazioni. A livello umano, invece, con alcune persone che ho conosciuto durante il viaggio, anche se per pochi istanti, si è creato un bel legame che sicuramente porterò per sempre dentro di me. 

A proposito di “Unti e Bisunti”, tra tutti i tuoi programmi hai un tuo preferito?

Sicuramente “Alla ricerca del gusto perduto”, dove sono io al 100%. Ho fatto in modo che non ci fossero interferenze di nessun tipo sul racconto, sullo stile, sulla regia, ma anche sulla scrittura e sul linguaggio della camera. Questo è il programma che mi rappresenta più di tutti.

Tu ti sei dedicato anche allo studio della fotografia. In questi giorni sei a Comacchio con una mostra, ce ne vuoi parlare?

Mentre mi trovavo in Giappone volevo raccontare qualcosa ma non avevo ben chiaro cosa e ho scartato tanti ipotetici progetti. Dato che ogni anno c’è una sagra dell’anguilla a Comacchio e io avevo scattato diverse foto su questo fantastico animale, ho proposto al Comune se avesse avuto il piacere di esporre gli scatti. Devo dire che sono stati bravi a trovare i fondi per stampare le foto e siamo riusciti a farle vedere a delle persone che magari non andranno mai in Giappone e quindi abbiamo fatto ritrovare loro il Giappone in casa.

Foto di Chef Rubio
Foto di Chef Rubio

Come mai la scelta dell’analogico?

La scelta è concettuale e filosofica. La storia va conosciuta, rispettata e non abbandonata. La fotografia parte dal negativo che poi può essere sviluppato e stampato con tante varianti, ma si tratta di raccogliere un fotogramma e svilupparlo, non soltanto grazie alla conoscenza della luce ma anche della chimica. Bisogna essere quindi consapevoli del mezzo, oltre che dei propri mezzi. Mi sembrava corretto fare questo tipo di percorso. Con il digitale scatti sapendo che puoi permetterti degli errori mentre con l’analogico deve essere “one shot, one goal”. Io non faccio mai un doppio scatto di qualcosa, cerco di essere onesto con me stesso in primis ma anche con l’interlocutore, con la situazione e con il momento che mi va di raccontare. Questo è quello che mi rappresenta perché io faccio reportage. Apprezzo però anche fotografie di amici e colleghi che fanno un altro tipo di fotografia. Il bello della fotografia è che può spaziare in lungo e in largo quindi io non mi sento depositario di nessuna verità.

Tu hai iniziato qualche mese fa a visitare i carcerati di Rebibbia. Questo progetto è ancora in corso?

Finché non ci saranno degli impedimenti da parte di terzi io andrò a trovarli. Mi andava di dare qualcosa a chi è sfortunato e/o è stato ingiustamente recluso, a prescindere dal crimine commesso, in un istituto penitenziario che tutto fa tranne che far prendere coscienza degli errori commessi. Partendo dal discorso che il carcere non dovrebbe esistere e soprattutto non dovrebbe esistere questo tipo di carcere a livello mondiale, mi andava di stare con loro. Io ho portato loro le tragedie greche e loro mi hanno dato un motivo in più per credere nell’essere umano. Ci sono tante persone che dovrebbero stare dentro che stanno fuori e tante che stanno dentro e invece dovrebbero stare fuori.  

C’è stato chi ha frainteso in buona fede un tuo tweet molto discusso, quello sul caso di Trieste. Col senno di poi lo scriveresti in un modo diverso?

No, io scrivo sempre istintivamente, di pancia. Non è tanto quello che ho scritto ma quanto poi dopo uno spunto non si trasformi mai in qualcosa per evitare che le tragedie, che non dovrebbero accadere, non accadano più, ma si rimanga sempre nella sterile polemica. Non si fa mai nulla per risolvere i problemi, fa molto comodo trovare un capro espiatorio, ma si stancheranno prima loro, io non mi stanco. 

Teresa Franco

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