I figli ti invecchiano: commovente monologo di Mattia Torre recitato da Mastandrea

Sfide, paure, gioie e dolori dell’essere genitore oggi: I figli ti invecchiano è il bellissimo monologo di Mattia Torre, recitato da Valerio Mastandrea.

Mattia Torre i figli ti invecchiano

Essere genitore è una sfida, è un mestiere, è una vocazione, è un impegno: ma è un cambiamento, sempre e comunque. E come ogni cambiamento spaventa, fa vacillare le certezze. Non sai più chi sei, non sai chi diventerai, non sai se sarai all’altezza. Lo descrive bene il regista e sceneggiatore Mattia Torre, venuto prematuramente a mancare ieri all’età di 47 anni, in un monologo recitato da Valerio Mastandrea.

I figli ti invecchiano

“I figli ti invecchiano perché passi le giornate curvo su di loro e la colonna prende per buona quella postura. Perché parli lentamente affinché capiscano quello che dici e questo finisce per rallentarti. Perché ti trasmettono malattie che il loro sistema immunitario sconfigge in pochi giorni e il tuo in settimane. Perché ti tolgono il sonno per sempre. Quindi assonnato, curvo, lento e acciaccato, sei nella terza età.

I figli ti invecchiano anche perché quando arrivano al mondo mettono fine con violenza inaudita a quella stagione di aperitivi, feste e possibilità che ti sembravano il senso stesso della vita. Murato in casa e reso ceco da una congiuntivite hai un vago ricordo ricordo di ciò che eri e di ciò che avresti ancora potuto esprimere, ma non sai più dire con precisione cosa. Hai solo molto, molto sonno.

I figli si insinuano nella tua mente in modo subdolo e perverso. Se sei con loro ti soffocano, se non ci sono ti mancano. Ci è successo di voler scappare dopo troppe ore insieme a loro e poi trascorrere la serata in un ristorante a guardare le foto sul telefonino, straziati da una nostalgia senza senso perché li avresti rivisti dopo un’ora.

Io parlo di figli al plurale perché quando ne hai uno solo l’impresa ti sembra ancora fattibile. Hai ancora l’illusione di poter essere te stesso. Ma se arriva il secondo: arriva la deflagrazione. Ogni scusa è buona per uscire, si litiga per chi deve fare la spesa e la sera ci si affaccia dalla finestra nel bagno valutando le conseguenze di una caduta nel vuoto.

Quando poi riesci a uscire di casa, la baby-sitter è la tua nuova costosissima droga. Beh, ti rendi conto che il mondo fuori non è più lo stesso. Ormai è diverso, non fa più per te. La gente è vitale, allegra, tonica, crede nel futuro. E tu ti aggiri con lo sguardo perso, l’andatura incerta, l’inconfessabile desiderio di voler solo tornare a casa. Non ti riconosci allo specchio e va benissimo così.

I figli ti fanno ripiombare con una forza che neanche l’ipnosi nel tuo passato più doloroso e remoto: l’odore degli alberi alle 8 del mattino prima di entrare a scuola, la simmetrica precisione dell’astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate. Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita ti sfugge via e i gin tonic hanno smesso di darti l’illusione dell’eternità. Sei un pezzo di un grande ingranaggio arrugginito che si muove a fatica.

D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande”.

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