“Tokyo Love Hotel”: la recensione

tokyo love hotel

Hiroki mon amour

“Quell’esperienza è preziosissima, soprattutto quando lavoro con tempi molto stretti: due settimane, in questo caso. I pink eiga venivano realizzati in tre o quattro giorni al massimo e giravamo sempre nella stanza di una love hotel, dal momento che c’erano molte scene di sesso”.
Nato nel 1954 a Koriyama, città del nord del Giappone, il bad boy della Settima arte nipponica Hiroki Ryuichi ricorda così l’importanza della sua lunga militanza nell’ambito dei pinku eiga, ovvero i softcore indirizzati al pubblico degli adulti che fiorirono negli anni Settanta in seguito al crollo del sistema degli studios nella terra del sushi.
Filone in cui ha esordito in qualità di aiuto regista, per poi passare dietro la macchina da presa nel 1982 proprio con uno dei suoi esempi, Sexual abuse! Exposed woman, volto a rappresentare soltanto il primo tassello di una lunga filmografia (oltre settanta lavori all’attivo) che, comprendente anche l’acclamato Vibrator, del 2003, ha fatto dell’eros e dei sentimenti i propri marchi di riconoscimento.

Toru! Toru! Toru!

Filmografia alla quale va ad aggiungersi Sayonara Kabukichô (come è conosciuto in patria Tokyo Love Hotel), il cui titolo fa riferimento al quartiere a luci rosse della capitale giapponese dove, nell’arco di un giorno e di una notte, seguiamo ciò che accade dinanzi allo sguardo stralunato e rassegnato del giovane Toru, interpretato da Shôta Sometani.
Il Toru che dirige con pigrissima rassegnazione lo squallido Atlas, uno dei tanti alberghi dell’amore, facendo al contempo da sponda al via vai, alle tresche ed ai naufragi atti ad accompagnare cinque coppie sull’orlo di una crisi di nervi e qualche single non meno borderline.
Personaggi sguazzanti da finti talent scout a vere attrici pornografiche, passando per ragazze fuggite di casa, malinconiche escort, fidanzati ignari e donne delle pulizie che non sono, in realtà, chi dicono di essere.

Japan sex!

Personaggi che, però, non dimenticano neppure clienti che si innamorano e aspiranti artiste che non disdegnano le scorciatoie; man mano che Maeda Atsuko, ex leader del mega-gruppo AKB48, si cimenta nei panni della aspirante cantautrice Saya Iijima regalando anche una scena di pianto, elemento immancabile nel cinema di Ryuichi, qui di ritorno all’antica matrice indie dopo il passaggio all’universo mainstream.
Personaggi disegnati dalle combinazioni e dai cortocircuiti tra sesso, speranza e destino, in modo tale che incarnino un’umanità incline a segreti, bugie, inciampi e cadute, pur rivelandosi comunque capace di continuare a sognare per credere che lasciarsi alle spalle Kabuchiko non sia, forse, impossibile.
Tutti al servizio di un racconto corale e, a suo modo, altmaniano, che mira in maniera evidente a non prendersi mai eccessivamente sul serio (con tanto di copula censurata nelle immagini dei genitali, come da tradizione dell’hard giapponese) nel filtrare in più occasioni il dramma e qualche punta di melò attraverso l’ironia.
Ma tirato un po’ troppo per le lunghe (si va oltre le due ore e dieci minuti) e reso piuttosto soporifero dalla estremamente lenta narrazione; mentre non appare chiara la sua posizione (magari non intende proprio prenderla) nei confronti dei rapporti sessuali e affettivi rappresentati, risultando in (buona) parte confuso… proprio come il campionario umano che inscena.

Francesco Lomuscio

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